martedì 24 marzo 2020

BUONA GIORNATA



Eccoci in questa prima domenica di quarantena. Sono le undici e trenta e ho già fatto: due lavatrici, pulizie sommarie, passeggiata con cane, rigorosamente entro i cento mt da casa. L’impasto della pizza sta lievitando, le patate sono a lessare, la belga è in forno.
Siamo attivi anche sul versante ludico: abbiamo costruito un carro attrezzi, un trattore, una macchina della polizia, fatto quattro o cinque partite al gioco dell’oca, ci prepariamo per un collage artistico. E sono solo le undici e trenta.
Gli altri della casa hanno fatto chi una doccia, chi un giro in bicicletta sui rulli davanti alla finestra, è un attimo che si butti di sotto.
Ora ognuno in una stanza diversa, ognuno con un computer sulle gambe. I privilegiati dell’isolamento forzato, quelli col wifi, con quattro pc in casa, netflix, sky, prime video. Tutto.
Mi è venuto in mente ‘About a boy’, e quella idea fantastica di sezionare la giornata in unità di tempo. Mezz’ora mi sembra.
Fammi pensare: sessione di esercizi per la schiena, perfetto; piccoli lavori di giardinaggio da balcone, può andare; episodio di una serie, si sfora di dieci minuti ma fa lo stesso; torte, pizze, biscotti, attività in cucina in genere, va bene ma solo una volta al giorno, anche perché la farina, ho capito essere difficile da trovare. Una telefonata con le amiche? Immancabile. Anche i ritrovi su House Party, indispensabili ma non esageriamo, vedo messaggi alle sette del mattino: Pinco in in the house. Dormi ancora un po’ ti prego, così la giornata è più corta.
Poi l’alternativa c’è, ma bisogna essere forti, avere pelo sullo stomaco: affrontare i mostri, quelli che, se avessi tempo…
Il cambio degli armadi? Quale migliore occasione. Riorganizzare l’archivio icloud? Altro che mezz’ora, io non ce la farò neppure con la pandemia. Riordinare le foto digitali? C’è da mettersi a piangere. Organizzare una buona volta le playlist della musica? Ma perché?
Certo si potrebbero leggere Proust e Dostoevskij, però non bisogna avere figli intorno.
Appunto, i figli. Non ho ancora capito se averli in casa in questa quarantena ci salverà dall’autodistruzione, o se doverli intrattenere e non disporre liberamente del proprio tempo ce li renderà insopportabili.
Lo scopriremo insieme, però c’è una buona notizia, domenica prossima si torna all’ora solare: un’ora in meno da organizzare.
Buona giornata a tutti.

L'OPERA D'ARTE


Sarà perché sei nato durante Artefiera, sarà perché disegnare è la cosa che ti rilassa di più, la cura al nervosismo, il rifugio dai piccoli disagi di tutti i giorni.
Fatto sta che: ‘Attacco i miei disegni e poi vengo a mangiare’ mi è sembrata una frase normale, una di quelle a cui non dò peso, perché sono le sette di sera, sono stanca, siamo stati in un centro benessere, barra estetico, barra palestra, e hai rotto un vogatore, o forse, speriamo, è solo saltata una cinghia.
‘Ecco ho finito, vieni a vedere.’
Non posso neppure arrabbiarmi perché è talmente preziosa la fantasia con cui prendi la tua collezione di mezzi di trasporto (per far posto ala quale tra un po’ dovremo uscire noi) e dissemini corridoio, ingresso, camere, delle tue opere. E pazienza se le hai letteralmente incollate con vinavil ai muri, e pazienza se dovremo ridipingerli o tenerci le macchie di colla.
È la tua arte. Tu, sei un’opera d’arte.
Raccontare te è una delle cose più difficile che mi sia mai capitata, perché non bastano le parole, né gli aneddoti, né spezzoni di scene che ti vedono protagonista. Raccontare te non sarà mai come viverti, giorno per giorno, parola dopo parola, sguardo dopo sguardo.
Bisogna svegliarsi insieme a te, provare a scendere dal letto e sentire una mano minuscola che prova a fermarti, bisogna tentare di lavarti la faccia, i denti, di metterti uno stupido paio di jeans, e una banalissima maglietta bianca per capire davvero chi sei e cosa provi tu.
Bisogna prendere i pugni, i calci, le testate, poi le scuse, le carezze, le motivazioni, che riesci a mettere in fila come un adulto.
Bisogna prendere le tue rincorse, fare i tuoi tuffi, ascoltare le tue risate maldestre, le tue parole sospese, le tue storie surreali.
Bisogna guardarti quanto ti assenti nella tua bolla, quando escludi il resto del mondo, quando cerchi il silenzio e la quiete.
E poi bisogna amarti. Per l’essere unico che sei, per la dolcezza, la spontaneità, l’energia. E bisogna amare anche le tue paure, le tue nevrosi, le tue rigidezze. Solo combatterle non si può. Più amo le tue stranezze, più mi affeziono alle tue bizzarrie, più tu le lascerai per strada, via via. E quello che vuoi tenere, quello che non riuscirai a controllare lo terremo fra noi, lo divideremo con gli amici, lo vinceremo con gli abbracci.
Sii sempre la persona speciale che ti abita dentro. Questo l’unico augurio che ti voglio fare. Buon compleanno amore mio.

STRIZZOLO


È arrivato il calendario duemilaventi, quello che faccio tutti gli anni con le foto di quello appena finito. Cerco di mettere sempre tutti in modo equilibrato, nelle pose migliori: le vacanze, i weekend, le trasferte, i compleanni, ma anche il quotidiano, le facce vere, gli scatti divertenti.
Il calendario finisce per avere una sua voce, solo perché a un certo punto, verso agosto, mi stufo, e comincio a mettere le foto un po’ più a caso. Altrimenti rifletterebbe per intero il mio umore.
Per fortuna quest’anno l’umore è buono, o avrei già strappato la pagina di gennaio dove c’è una foto che mi invecchia di dieci anni. In bianco e nero, almeno quello. Con un cappello tipo Diane Keaton che è ciò che mi ha tratto in inganno.
Poi le rughe uno, prima o poi, le deve accettare, come i chili in più, l’insonnia, i capelli bianchi e gli occhiali da vicino.
Anche febbraio dice la sua, ho messo una foto insieme a Giorgio, un selfie: porto un cappello nero e gli occhiali da sole, però invece che Diane Keaton sembro Franco Califano. Ma è una questione di inquadratura.
A marzo migliora, e anche dopo. Però l’anno venturo staro più attenta. Magari potrei aggiungere qualche testo, battute varie che ci passiamo a tavola. Scampoli di discorsi, momenti di quotidianità, anche solo pezzi di conversazione.
-Ciao piccolino vado a lavorare.-
-Lavori al computer o vai al lavoro vero?-
-Vado fuori, ho un appuntamento. Comunque anche quando sto al computer…-
-Ma che dici mamma, non dire sciocchezze…-
Sono le risate che uno dovrebbe ricordare, dopo anni. Altro che foto. Che istantanee. E’ un’idea geniale, me lo dico da sola: piccolo compendio di risate. Meglio: raccolta indifferenziata di parole buttate.
-Che fai, lavori?-
-Si perché?-
-Così, vederti lavorare mi fa venire voglia di studiare-
Toccherà prendere un quaderno, tenerlo a portata di mano, annotare le parole, chissà se avrò costanza almeno in questa cosa. Si sa, all’inizio dell’anno uno ha mille progetti, voglia di fare, entusiasmo, energia. Il difficile è tenere duro quando l’entusiasmo cala.
Per esempio un giorno mi ero messa dal mattino presto a segnare su un foglio quante volte Giorgio dice mamma in una giornata. Pensavo di potere partecipare, che so? Al Guinness dei primati. Alle dieci eravamo già a trentacinque, poi mi sono stancata.
Comunque questi maledetti o benedetti social un po’ aiutano. Vedo che anche altri annotano frasi dei figli, citazioni di libri, o battute di film. Sembra nulla, ma in realtà il nostro tempo è scandito da queste cose. E queste cose io un giorno vorrei ricordare.
-Cosa c’è amore?-
-Niente. E’ che non ti voglio vedere mai più.-
-Meglio, perché stavo uscendo.-
Lo so questa non fa ridere, ma in un certo senso sì. Fa da contrappeso a quest’ altra che invece spacca a metà:
-Scusa mamma non volevo dire una cosa brutta.-
-Fa niente.-
-Posso darti uno strizzolo?-
-Un che?-
-Uno strizzolo.-
-Che cos’è?-
-È un abbraccio forte, fortissimo, che serve per dire quanto bene vuoi a qualcuno. Ti faccio vedere.-
Adesso piango. No scusate. Rido. Rido a più non posso.

IL PROFESSORE ASSORTO



Incontrare persone a me fa bene. Più sono strane, meglio è.
Oggi per esempio entro in un parcheggio custodito, c’è un piccolo ingorgo, persone che entrano, altre che aspettano alla baracchina, penso di fare una cosa intelligente e parcheggio in un buco dove chiaramente blocco altre auto, poi scendo e vado verso il parcheggiatore a consegnare la chiave.
Sono in fila dietro un signore distinto che paga diligentemente, poi sta a me:
-Lei signora?
-Io ho messo la macchina là a sinistra-dico
-E ha fatto molto male. La sposti-
Non ride, è molto serio, vorrei fare una battuta ma tira una brutta aria. Così rientro in macchina e la sposto.
Sono in ritardo, mi aspetta il colloquio con un professore di Giulia. Tipo bizzarro. Me lo aspettavo più vecchio, invece potrebbe avere la mia età, qualcosa in più.
I colloqui a scuola rischiano di essere inutili e anonimi: i professori, tutti, hanno un ipad, niente compiti da guardare, nessun errore segnato in rosso da commentare, i voti li si è già visti sul registro elettronico. Cosa sono venuta a fare? Ad ascoltare parole, sentire racconti, a cercare negli occhi di altri adulti un po’ di empatia.
Quest’uomo che incontro oggi mi parla di mia figlia e guarda fuori dalla finestra, oppure un punto indistinto dell’aula, per qualche minuto guarda per terra. I suoi occhi non riesco a incontrarli che per brevissimi istanti, scappa via subito. È inevitabile, la scrittrice che abita in me oramai guarda le persone con quella curiosità lì, quella che cerca personaggi, manie, volti, espressioni, gestualità.
Non capisco se sia timidezza, o un certo pensare assorto, quasi rivolgesse le considerazioni anche ad altri, infatti parla di ragazzi, non solo di mia figlia: ragazzi che hanno poca grinta, che subiscono ansia, che sia arrendono subito, che hanno paura di fallire. È una fase, dice, con il tempo si rinforzano, trovano la sicurezza, la direzione.
C’è un ché di tenerezza nelle sue parole, d’un tratto non mi importa dei voti sul registro. Avere professori intelligenti che guardano oltre è più importante di un voto. Quando ci salutiamo finalmente mi guarda negli occhi.
Eccomi fuori dalla palestra dove mio figlio fa arrampicata, siamo in ritardo, corriamo, nella bussola di ingresso c’è un uomo: Giorgio si ferma, lo guarda, lo abbraccia.
…Come ti chiami? Quanti anni hai? Quarantacinque? Come la mamma. E tu? Io ne ho cinque.
Poi schizza dentro, si toglie la giacca, ed è già sulla parete, mentre io mi siedo a un tavolino del bar e così fa Maurizio, l’uomo della bussola.
Lui ordina un panino, lo vedo seguire con gli occhi il mio ragazzino che corre dentro, fa un sorriso e commenta:
-Problemi di relazione certo non ne ha-
Arguto, Maurizio. A rischio di sembrare una che fa la piaciona in palestra, attacco bottone, il tema sono bambini, lo sport, l’arrampicata, e perché no? I problemi di relazione.
Chiacchiere da bar, finché mi esce questa frase:
-Ad arrampicare si deve essere in due, vero?- e mentre la pronuncio mi accorgo che suona esattamente da piaciona che ci prova.
Che ne sa Maurizio che intendevo altro? Che l’essere in due in uno sport per me è un impiccio, un freno, l’obbligo di chiamare qualcuno, una noia, e tendenzialmente preferisco stare da sola.
Chissà cosa ha capito, Maurizio. Dopo qualche altra battuta sui bambini sente l’esigenza inevitabile di dirmi che è un prete.
Quindi oggi in sequenza ho incontrato il parcheggiatore scorbutico, il professore assorto, e il prete scalatore.
C’è abbastanza materiale per un libro. Magari noir.

GASSMAN, VITTORIO



Per mia figlia se dici Gassman è Alessandro. Punto. È giusto così, appartiene al suo tempo, ha visto i suoi film, le fiction, le pubblicità. Lo ha visto dietro le quinte di X-Factor quando c’era il figlio che cantava.
Di Vittorio credo non sappia nulla, ne so poco anche io, lo ammetto. Mi ricordo le parti dei film in cui era più vecchio, La Famiglia, Sleepers. Forse ho visto Il sorpasso. Di recente sono capitata su Youtube e ho trovato Gassman che legge Montale. A lei non l’ho detto, non sa neanche chi sia, Montale.
Poi accade questa cosa, e rischio di passare per donna emotivamente instabile, quale probabilmente sono, ma ammetto di essermi commossa.
E’ tornata l’ora solare, si dorme un’ora in più, cioè qualcuno dorme un’ora in più. Io no, e neppure lei, a quanto pare, che arriva in cucina alle sette già vestita e pronta per la scuola. Oggi ha una verifica di italiano sulla Divina Commedia, i primi canti dell’Inferno.
Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, possiamo anche dire di averla letta tutti dall’inizio alla fine, di averla amata oppure odiata, e possiamo dissertare su questo grande capolavoro, ma diciamo la verità: è un libro che abbiamo solo sfiorato alle superiori, qualcuno lo ha approfondito, qualcuno lo ha dimenticato, qualcun altro ne ha sentito qualche pezzo interpretato da Benigni. La maggior parte.
È un poema meraviglioso, non c’è che dire, ma è difficile anche per grandi letterati e menti illuminate, figuriamoci per ragazzini di sedici anni che leggono poco e nulla, e d’altronde se gli metti un cartonato di Giulia del Lellis all’ingresso della libreria cosa ti puoi aspettare?
Dovete capire, questa mattina alle sette, lei arriva in cucina, si siede, prende un caffè e dice: Gassman è proprio bravo.
-Scusa?-
-Gassman, Vittorio Gassman-
Mi guarda come se non sapessi chi è, poi prende il telefono e mette YouTube.
-E’ dalle cinque che ascolto Gassman recitare l’Inferno, bravissimo.
Non saranno state proprio le cinque però ha dell’incredibile no? Voglio dire, è la stessa persona che qualche giorno fa mi ha detto di volere fare i provini per Il Collegio, e se non sapete cos’è, è meglio, la stessa che mi ha chiesto cosa vuol dire ‘scibile’.
Beh, io ho deciso di essere meno critica, di fare un esame di coscienza e dare il beneficio del dubbio, a questa ragazza, in primis, ma anche ad altri, ho deciso di scendere dal piedistallo, e di essere persino meno snob verso la loro presunta ignoranza.
Sarò sempre qui se avrà bisogno di un consiglio per un libro da leggere o un film da vedere, la ascolterò ripetere storia e di sicuro le spiegherò i vocaboli che non ha mai sentito e non usa abitualmente, avrò fiducia nella sua scelta di cultura, nelle sue possibilità di imparare.
-Come è andata la verifica su Dante?-
-Abbastanza bene-
-Mi fa piacere-
-Alla fine però non mi sentivo sicura, bisognava paralre della persona di Dante in sovrapposizione a Virgilio, avevo paura di ripetermi, di andare fuori tema, mi è venuta un po’ d’ansia.-
-Quindi?-
-Niente, ho fatto la verifica su Calvalcanti.
-Ma scusa, è tre giorni che studi Dante.
-E allora? Ho parlato anche un po’ di Dante.-
Quella cosa di dare fiducia? Scusate. Ritiro tutto.

IL SAPORE DELLA LIBERTA'


A chi mi dice scrivi poco, vorrei rispondere che per scrivere a volte ci vuole il buonumore, o almeno, per scrivere le cose che vorrei, ci vorrebbe un minimo di leggerezza. Che non ho.
Il periodo è difficile, la depressione è dietro l’angolo, la lacrima è sempre in tasca. Che ci volete fare? Capita a tutti.
E poi che faccio del mio meglio, rido quando posso anche quando non dovrei.
L’altro giorno mi ha chiamato un cliente mentre ero in macchina, il telefono l’aveva in mano Giorgio, che ha risposto naturalmente, ed è facile immaginare cosa possa dire un segretario di cinque anni. Comunque durante la telefonata, in viva voce, che ho cercato di tenere il più breve possibile per ovvie ragioni, il segretario si è inserito:
-Sì, sì, va bene, abbiamo capito, adesso metto giù, ciao ciao ciao, abbiamo capito.- Clic.
Ecco. Cliente perso. Pazienza.
Anche all’agenzia delle entrate cerco di passarmela, alla vecchia cara equitalia, che qualcuno diceva di avere abolito, ma io, che ero lì, non ho notato alcuna differenza, neppure negli arredi, neppure del personale, che sembrano arredi anche loro, un po’ grigi e un po’ verdi: le scadenze delle varie rottamazioni sono state in concomitanza di Pasqua, Natale , agosto, c’è gente che non va in vacanza da cento anni, mi dice l’impiegata alla quale approdo dopo due ore di attesa.
-Scarichi l’app- mi dice- così la prossima volta prende l’appuntamento e non deve aspettare tanto- continua- le ricordano pure le scadenze!-
Ah che bello!
-Mi dispiace signorina, faccio il possibile per restare di buonumore nella vita, l’applicazione della agenzia riscossione non rientra nelle opzioni. Mi scusi. Non me la sento. Preferisco la fila.
Già che sono in zona entro anche in Comune, magari se busso a tutte, ma dico a tutte le porte di tutti i dodici piani della torre A, forse incontrerò la persona che cerco.
Qualcuno disposto a prendersi la responsabilità di introdurre alla scuola materna un cibo non previsto nella complessa rete della refezione scolastica.
Ho letto il regolamento comunale, quello sanitario, ho chiamato il comune, lo Ies, la Ribò, la pedagogista, la psicologa dell’usl, la casa del giardiniere, poi in preda alla disperazione ho chiamato numeri a caso, tipo la Fiat, il Ministero degli Esteri, la Casa Bianca, niente, portare uno yogurt a scuola proprio non si può, va contro il protocollo. Ho deciso: modificare la refezione scolastica del comune di Bologna diventerà la sfida della vita.
Ma non si può fare per telefono.
Alla terza porta del quinto piano sono riuscita a ottenere qualcosa: una deroga temporanea, ho firmato un documento, una liberatoria in cui dichiaro che se un’ape pungerà un bambino in giardino, sarà colpa mia, se nel parcheggio della scuola c’è l’ingorgo è colpa mia, la signora con la panda e i due gemelli che è sempre in ritardo? Colpa mia, e dello yogurt che sotto la mia chiara e dichiarata responsabilità ho introdotto incautamente a scuola.
Vediamo che succede.
Poi ti chiedono come mai sei depressa. Però tra un delirio e l’altro ho trovato una soluzione, il classico gancio in mezzo al cielo: lo voglio condividere perché potrebbe aiutare altri nei momenti bui, di fatica, stress, avvilimento e tristezza insanabile: se non trovate amici, sport, passioni che vi sollevino il morale, c’è sempre l’episodio tre della prima stagione di How i met your mother. ‘Il sapore della libertà’. Dura solo quaranta minuti, ma è efficace. Prometto. Ho ricominciato a scrivere…

LECTIO MAGISTRALIS



Mio padre non ha mai cucinato regolarmente, voglio dire, non era quello che si metteva a fare un risotto, uno spaghetto alla carbonara, o un arrosto di vitello.
Sapeva fare solo dolci. Nei miei ricordi di bambina c’è una grande bacinella rossa come quelle per la biancheria, e lui che ci versa tonnellate di cioccolato fuso, chili di miele, poi mandorle, noci, cedro candito sminuzzato, e mescola, mescola, mescola con un cucchiaio di legno.
Prima di Natale quella grande bacinella si trasformava in trenta certosini, la metà venivano regalati ad amici e parenti, con l’altra metà arrivavamo fino a Pasqua inoltrata.
In casa mia si procede per passioni, un giorno i certosini e la loro pesantezza hanno arretrato per fare posto ai bomboloni fritti, e, devo dire, è stato un momento commovente dell’adolescenza, per poi deviare sulla produzione quasi professionale di raviole e pinze, pasta frolla ripiena di mostarda di mele cotogne.
Ora, che sono adulta, e in cucina non sono all’altezza ma ci provo, non mi sono mai avvicinata ai mostri sacri di mio padre, molto più comodo passare la domenica a prendere il vassoio pronto, che, fino a poco tempo fa, veniva preparato con precisione e regolarità.
Arriva oramai troppo presto il giorno in cui i miei figli si litigano l’ultimo pezzo di dolce, e si deve ripiegare su delle gocciole prive di affetto e passione.
Qual’è il punto?
Il punto è che mio figlio non ha mai mangiato un gelato, una tavoletta di cioccolato, un cucchiaino di nutella, però ama disperatamente le raviole con la mostarda. È un mistero, lo so, ma tant’è.
E non raviole comuni, comprate al forno, nel migliore forno di Bologna. No, signori. Quelle prodotte sul tagliere di mio padre, solo ed esclusivamente quelle.
Il nonno, brav’uomo, le cucina quando e come può, certo che gli ottant’anni appena compiuti e il pace maker appena applicato al cuore, hanno leggermente indebolito la sua attività di cuoco.
Eccoci al passaggio di testimone, è il momento, l’eredità è segnata, d’ora in avanti è la sottoscritta ad avere la responsabilità, e, a dire il vero, il gusto, di provvedere al nutrimento e alla sopravvivenza di zuccheri nelle vene di mio figlio. È giusto così.
Pare facile.
Vengo convocata dai miei genitori, è un rito di iniziazione, tutto è già pronto sul tavolo, cominciamo: sciogliamo il burro, aggiungiamo zucchero, uova, mescoliamo, facciamo un cratere di farina, cominciamo a impastare, con le mani? Macché. Con una spatola da ferramenta. Non si può discutere, la spatola è l’elemento fondamentale. Mi si dice. E spatola sia, devo suggerirla alla Parodi.
Stendiamo impasto con mattarello, lo spessore è a sentimento. Ma come? Il diametro dei cerchi invece è l’ingrediente segreto. Mi toccherà rubare uno dei calici rosa da acqua, non da vino, da casa di mia madre, lo so.
Posizionare i dischetti in file da cinque.
-Perché cinque?
-Che domande fai? Per contarle più in fretta.
-Ah, certo, con quel che abbiamo da fare!
Un cucchiaino di mostarda, ma un cucchiaino col manico lungo, da cocktail, e chi ce l’ha?
Via, si chiude, in forno.
-Hai le teglie di alluminio?
-Boh, sì.
-Come boh?
-Sì, sì, credo di averle.
-Però hai forno elettrico.- Smorfia di disappunto. Alzo le braccia.
Dodici minuti al primo controllo, non tredici, non undici, dodici. Venti minuti massimo consentito, certo con il forno elettrico…ancora disappunto, ma con un pizzico di insofferenza.
Lectio magistralis su dolci alla bolognese. Iginio Massari è un dilettante.

SEDICI



C’è un pezzo nel Giovane Holden in cui il protagonista parla delle varie cose che detesta, fra queste ci sono le persone che ripetono le cose due o tre volte, anche dopo che hanno già avuto ragione.
Holden mi avrebbe detestato: io lo faccio continuamente.
Così almeno mi ha detto Giulia in una delle varie discussioni che abbiamo avuto questa estate. Passare tanto tempo insieme, in formazione completa, in spazi ristretti e tempi dilatati, è qualcosa a cui, se ci penso bene, non siamo più abituati. Anche l’altalenante e variabile copertura di wifi, finisce per sbatterti l’uno contro l’altro e costringerti alle cose più semplici e banali. Come parlare.
Così parliamo, tutti, spesso uno sull’altro, ci sono risposte secche, occhiatacce, la voce, quella no, non l’alziamo mai.
Tutti vogliamo dire la nostra, ognuno vuole avere l’ultima parola. Io un po’ di più, lo ammetto.
Dicono che sia una fase inevitabile del rapporto madre-figlia: lo scontro, intendo, la frizione, qualcuno ci mette dentro anche la competizione. Io a questa non credo però. Già non sono competitiva di mio, e anzi, sono felicissima che lei sia giovane, bella, spensierata, vitale, sciocca quanto chiede la sua età.
Forse vorrei che mi assomigliasse un po’, tutto qui, per avere più punti di unione. Vorrei che le piacessero i miei libri, i miei film, vorrei che ridesse alle cose per cui rido io. Vorrei che le piacesse la musica che ascolto, invece ieri per radio c’era Santa Esmeralda, Don’t let me be misunderstood, con quell’assolo di chitarra e mani che battono a ritmo latino. E lei mi chiede:
-Ma a un certo punto cantano?-
Che vuoi dirle?
È che mi fa ridere. Davvero. E’ una persona simpatica, che fa belle battute, facce buffe, che scuote la testa, alza le sopracciglia per fare commenti che capisco perfettamente. E’ un po’ rigida, è vero, categorica, bianco o nero, ma diventerà più morbida, con il tempo.
Pure ansiosa, un po’ troppo. Pessimista? Forse.
Catastrofica? Almeno due volte l’anno.
Sincera e diretta. Al limite della diplomazia.
E’ una sorella che gioca, fa la lotta, ride, accudisce, insegna, ama. Tanto basta.
Un giorno mi ha detto che sono fortunata ad avere una figlia come lei, che mi devo baciare i gomiti. Io ho avuto un attimo di perplessità, perché è vero, la fortuna l’ho avuta, eccome, però qualcosa ho anche fatto, abbiamo fatto, per crescerla.
Volevo rispondere che è lei a doversi baciare i gomiti con due genitori così, poi ho ricacciato le parole in gola.
Un’ altra volta mi ha fatto piangere, magari ero io che ero stanca, dicendomi che ero pesante. Io ci ho letto dietro anche altro: che ero noiosa, vecchia, pedante, una pessima madre insomma, invece lei intendeva che la smettessi di torturarla con i compiti.
Per inciso, e a mia difesa, la scuola ricomincia tra venti giorni, e lei non ha fatto nulla se non una versione di latino e qualche pagina di inglese. Ha letto anche un libro. Troppa grazia.
Questa notte c’è una specie di accampamento in camera sua, siamo arrivate alle otto di sera, dopo circa quattordici ore di viaggio, e non è che fossimo in Brasile, e tac, alle nove c’era già la festa: amiche, patatine, arachidi, bibite, cocktail più o meno alcolici, aperol spritz, e via dicendo.
Ora sono su un treno per Riccione, ché
stare un giorno fermi a sedici anni è vietato.
Buona giornata amore mio. E buon compleanno.

Ti chiamo poi io quando riesco


Ricorda una frase adolescenziale di qualcuno vorresti fosse il tuo fidanzato e non è, invece è una figlia, che starà via quindici giorni, e, a quanto pare, chiamerà poco.
Devo averla detta anch’io questa frase, dopo avere fatto circa un’ora di fila alla cabina del telefono del campeggio di Praia a Mare, dove alla sua stessa e identica età andai con la mia amica Daniela, per i medesimi quindici giorni.
Potrei confondermi, ma ho un vago ricordo di Daniela che mi dice, mentre io aspetto con le monete in mano: “Puoi dire a tua madre di chiamare la mia e dire che sto bene?”
Ecco, semplificando, io penso che il mondo si divida in due categorie di persone: quelle che si ammazzano pur di non mancare la telefonata a casa, e quelle, più pratiche, che mandano un segnale di fumo e poi ciao.
Io faccio parte della prima categoria, Daniela della seconda. Questo spiega perché mia figlia è a due ore di volo e la sua a circa dodici, la mia ha un telefono, e la sua no.
Nonostante ciò, Giulia fa parte del secondo gruppo, una che non ha nostalgia di casa, del suo cane, di suo fratello. È probabile che le manchino il suo letto e il wifi, per il resto non pensa minimamente di usare l’alta tecnologia di cui dispone per inviare che so?, una foto della sua stanza. Io sono felice che sia così, e non sono neppure la madre chioccia che guarda il telefono ossessivamente, sono solo curiosa di sapere dove sia, chi incontri, come si svolga la sua giornata. È solo voglia di partecipare.
E poi c’è che l’unica vera telefonata ricca di dettagli è la prima, quando, per carattere e senso naturale di positività e ottimismo, la mia ragazza vede tutto grigio…”il posto è isolato, siamo in mezzo a un bosco, la mia compagna di camera non è arrivata, non c’è neanche un bar…”, dopo passa, naturalmente, magari il secondo giorno, quando si è ambientata, si fa coraggio e va a scoprire persone, luoghi. Solo che non lo dice, almeno a me, e mi tocca passare i restanti quindici giorni immaginandola alla Saint Paul School, aspettando che sbuchi fuori Suor Grey che la espelle, o Iriza che la bullizza.
Comunque non ho poi neanche tutto questo tempo per sfrangermi di malinconia, sono sotto sequestro, ormai da un paio d’anni, il mio rapitore ha cinque anni e mezzo, e, peggio, soffro di sindrome di Stoccolma.
Lui usa sistemi di tortura corporale e psicologica: quando meno me lo aspetto, prende la rincorsa, salta, raccoglie le ginocchia e mira allo stomaco. Banzaiiiiii, urla. E questo è nulla.
La mattina, quando si infila nel mio letto, io mi avvicino con le labbra ai suoi capelli, lo bacio, lo annuso, gli sussurro all’orecchio: “ti voglio un mondo di bene”
“Io no” ha risposto lui un giorno.
Eccoli i miei ragazzi. Poi mi amano, lo so, lui un po’ di più, anzi, è capace di dire cose struggenti, che annoto religiosamente in un quaderno da tenere lì per gli anni a venire, quando anche lui sarà diventato un ragazzo schivo e silenzioso.
Per ora, che posso, mi tengo stretta il mio sequestratore, e mi avvio verso la prima vacanza a due. Sono un po spaventata, lo ammetto. Se non mi faccio sentire per un po’, non vi preoccupate. Chiamo poi quando riesco.

martedì 25 giugno 2019

LETTERA LEGO

Lettera aperta a Niels B. Christiansen, Ceo Lego Group
Ciao Niels,
Scrivo questa lettera incurante del fatto che avrai fior fiore di consiglieri, tester, ingegneri, fanatici, e chi più ne ha più ne metta.
Io sono solo una mamma, mamma di un bambino soggiogato, stregato, rapito dai magici mattoncini che una volta costruivano solo casette e invece oggi, com’è giusto che sia, fanno concorrenza a ingegnerie navali, aerospaziali et cetera et cetera et cetera.
Noi personalmente siamo vittime dei mezzi di trasporto. Costruiamo in sequenza: macchine della polizia, elicotteri di soccorso, monster truck, poi, per rendere avventurosa la questione, abbiamo un paio di macchine sportive, decappottabili, tutte dei ladri, e sarà un caso? Poi abbiamo un trattore per la raccolta del legname, un dumper, un demolitore e un’autoscala dei vigili del fuoco.
Da domani, avremo anche un piccolo aereo da trasporto.
C’è anche un piccolo ma nutrito set di personaggi, un paio a confezione: poliziotti, pompieri, ladri, appunto.
Ieri, la domanda che mi ha spinto a questa lettera. Perché non c’è una pompiera femmina?
Già, perché non c’è? I poliziotti sono tutti uomini, così come i ladri, e naturalmente gli addetti ai mezzi agricoli.
Abbiamo soltanto una ragazza, ma non ricordo di quale confezione faccia parte. Probabilmente è una passeggera dell’elicottero. O una vittima di furto.
Quindi questo è il primo appunto che mi permetto di fare. Perché immagino che nei lego Friends per le femmine dove abbiamo furgoni del gelato, pulmini scolastici, persino ospedali e scuole, qualche donna ci sarà. quindi, in sostanza: più donne nel reparto sicurezza e criminalità. Per par condicio.
Gli appunti del bambino di cinque anni finiscono qui, forse ha qualcosa da ridire anche sul gancio dell’elicottero e sulla fune che si ingarbuglia sempre, ma soprassiede almeno per il momento.
Io invece, che non sono una bambina da un bel pezzo, e che sono l’addetta al riordino serale delle macerie lego, ho un paio di richieste, preghiere, suppliche.
Sono certa che altri, come me, abbiano serie difficoltà nel raccogliere alla fine di una giornata di lavoro, tutti i benedetti fanali dei mezzi che sapientemente li rendono così verosimili. È che hanno un diametro non superiore ai 6 mm, si infilano ovunque, l’altro giorno ne ho trovato un paio sotto il cuscino, un’altra mezza dozzina nella ciotola del cane, qualcuno è finito anche nelle mie scarpe da ginnastica.
Ecco, se potessimo trovare una soluzione a questa storia dei fanali, io sarei una donna migliore, più serena.
Ti faccio notare che alcuni di questi micro pezzi sono trasparenti, ripeto, trasparenti. Suppongo per simulare l’effetto vetro, ma credimi, è eccessivo. Troppo veritiero. I bambini, si sa, hanno bisogno di fantasia. E te lo dice la madre di un grande perfezionista. Che però, pure lui, a un certo punto, desiste, e dice:
‘Mamma, mettiamone uno blu che fa lo stesso’. Amore mio.
L’ultima minuscola critica, propositiva, sia ben chiaro, riguarda l’assoluta mancanza o relativa disponibilità di alcuni mezzi. Voglio dire. Perché deve essere così difficile trovare un’ambulanza lego city 4-7 anni? Noi facciamo incidenti quotidianamente, in macchina, in aereo, veniamo investiti da macchine di ladri in fuga anche più di una volta al giorno.
Domani mio figlio compie cinque anni, e non sono riuscita, neppure con largo anticipo, neppure su Amazon, a trovare uno straccio di medico a bordo di una fiammante ambulanza.
Ecco, credo che su questo potresti lavorarci. Comunque, perché tu dorma sonni tranquilli, volevo dirti che ho ripiegato su un mini calcio-balilla. Spero che mio figlio apprezzerà. Se non sarà così, ti riterrò personalmente responsabile.
Naturalmente ho scherzato. Sono una mamma, vorrei essere anche una scrittrice, ho scritto questo post per un solo, stupido motivo.
Auguri amore mio. Buon compleanno.
#legocity#auguri#NielsChristiansen

THIERRY

Cara mamma di Thierry, non so nulla di te se non che sei francese, e che hai una figlio di quindici anni dagli occhi solari e il sorriso caldo.
Sarai una mamma come me, probabilmente ti lamenti anche tu delle stesse banali cose: la camera in disordine, il telefono sempre in mano, le serie Netflix in cui si si sono persi qua e là i nostri figli.
Farai del tuo meglio, come me, come tutti, per sopportare le loro risposte a monosillabi, i loro sbalzi umorali, senza che nessuno mai si accorga di quanto sia faticoso mantenere l’armonia.
Invece oggi succede questo.
Siamo ai giardini, in quella piazzola vicino alla baracchina dei gelati, dove Davide, da anni, organizza il mini circuito delle macchine elettriche, e l’anello dove corrono i grilli.
Mio figlio, che ha cinque anni, e non ha esattamente una guida sicura, è quello con il casco giallo, quello che frena di colpo, quello che taglia la strada, quello che guida guardando indietro, quello che si diverte nei fuori strada sull’erba, quello che, durante il giro, mima il rumore delle auto da formula uno, meeeeeeee, meeeeeeeee.
Io sono quella sulla panchina che urla ‘vai dritto’, guarda avanti, il più delle volte ho lo sconforto in faccia, e lo so che non dovrei, ma è più forte di me.
I grilli si pagano a tempo, venti minuti mi sembra un tempo sufficiente, il bambino mi pare stanco e sudato. Come al solito gli dico: ‘ultimo giro’, e come al solito finge di non sentirmi.
Al terzo ultimo giro mi pianto in mezzo alla pista e con la forza prendo il grillo e lo riporto fuori dall’anello.
Parte il solito cinema, url, pianti. Alla gente paiono capricci, un po’ lo sono un po’ no.
Lo sconforto sulla faccia è sempre lì, oramai lo domino molto bene. Semplicemente sto lì e attendo che passi la crisi. Passa sempre, e passa più in fretta se non cedo al panico e agli sguardi giudici delle persone intorno.
Il piccolo mi lancia il casco con tutta la rabbia che ha, ‘Sei un mostro’ - dice.
Paro il colpo con destrezza, dico ‘Si sono un mostro’.
Ti sembrerò una pazza, ma ti scrivo perché proprio in quel momento, quando lo sconforto ha lasciato il posto a sommessa rassegnazione, dietro di me c’è un gruppetto di ragazzi, vogliono fare una gara di grilli, avranno quindici o sedici anni, e ce n’è uno che mi si avvicina, ha i capelli corti biondo castano, gli occhiali da sole, e questo sorriso da padrone del mondo.
Mio figlio si è rintanato nella capanna di Davide, che sembra una ferramenta, e dice che vuole vivere lì con lui, per sempre.
Il tuo ragazzo entra, si toglie gli occhiali, chiede a mio figlio il nome, qualche altra cosa, gli dice ‘ti ho visto, vai forte. Dammi un cinque.’
Giorgio glielo dà, poi esce dalla capanna, è allegro e sorridente. Del fatto che sono un mostro, non si ricorda, oppure mi ha perdonato. Gli allungo la mano, lui la prende. Io pago e poi vado a salutare questo ragazzo che non sa nulla di me, delle mie fatiche quotidiane, di mio figlio.
Potrei scrivere altre cento righe piene di retorica, ma non lo farò.
Vorrei solo che questa lettera rimbalzasse nella rete e arrivasse fino a te, perché a me piacerebbe saperlo se mia figlia avesse, un giorno, con leggerezza e candore, fatto un gesto minuscolo, che invece è di più, molto di più.

MATEMATICA PASSIONE

Era un vita che aspettavo questo momento. Niente di eclatante, non temete. Ho soltanto passato un paio d’ore a fare matematica con mia figlia. Equazioni di secondo grado, disequazioni, sistemi a due incognite, costanti, grafici.
Lo so, rischio molto, ma non vedevo l’ora di rimettere un’equazione sugli assi cartesiani.
E’ chiaro che non sto bene, che il senso di benessere procuratomi dalla risoluzione di un problema di analitica, non è un buon segno, che sperare di trovare una x che tenda all’infinito ha qualcosa di insano. Lo so.
Quello che non so, è da dove venga: forse un problema irrisolto di gioventù, qualcosa che appartiene alla terza liceo, per forza, quando la mia professoressa leggeva il libro di trigonometria, seduta alla cattedra, con voce monocorde, poi alzava gli occhi e diceva: avete capito? No.
Fu un professore magico che dava ripetizioni ad aprire quel mondo lì, della matematica, e lo fece con grande potenza e passione. Tanto che mi è rimasta appiccicata addosso.
Torniamo a oggi, a una madre e una figlia sedute al tavolo a risolvere problemi: la madre è po’ piena di sé, spocchiosa forse, la ragazzina ha talento, ma non si applica.
La madre dice: “facciamone un altro”, la ragazza risponde piccata: “senti fallo tu se ti diverti tanto, io sono stanca.”
Lei si vergogna e posa la penna, ma in effetti avrebbe voluto proseguire.
La conclusione infelice del pomeriggio è stato un quattro e mezzo nella verifica, e, come giustamente aveva sottolineato, tempo prima, la ragazza, che ribadisco, ha talento: sapere fare una cosa e saperla insegnare sono due cose diverse. Chapeau.
In ogni modo siamo finite su skuola.net e devo ammettere che ho qualche perplessità su un sito che organizza ripetizioni e scrive scuola con la K, ma andiamo avanti, le ultime persone che hanno dato lezioni di fisica in casa nostra hanno tutte trovato un lavoro serio in qualche azienda, cosa che dà da pensare, e anche qui soprassediamo, iscriviamoci a questo sito e incontriamo Giacomo C. Diamo il beneficio del dubbio a Giacomo C. che dopo due ore di ripetizioni esce dalla stanza di Giulia, mi saluta, facciamo un paio di convenevoli sulla scuola, finché lui si gira verso di lei e chiede: “che classe fai tu?”
Cioè?
In due ore l’argomento scuola classe programma non è neppure stato sfiorato? vi siete buttati direttamente sulle leggi della dinamica??? Faccio la battuta, nessuno ride.
Com’è serio Giacomo C. Speriamo che sia almeno laureato.
-Tranquilla!-dice Giulia- la laurea la controlla skuola.net.-
-Certo. Come no? Cambiamo argomento, Come sono andate le Invalsi?-
-Tanto non fanno media-
-Ho capito, ma come sono andate? -
-Matematica abbastanza bene, italiano così così, c’erano delle parole che non ho mai sentito.-
-Tipo?-
-Scelba-
-Tranquilla.Non la so neanch’io. E poi?-
-E poi un nervoso! C’era un esercizio sul CQ e ho scritto taccuino con la C, accidenti!-
-Ma taccuino si scrive con la C.-
-Ah davvero? Meglio allora, uno l’ho fatto giusto.-

ACCADE IN GIUGNO

Giugno lo amo, pazzamente. Più di tutti gli altri mesi dell’anno. Perché? Chi lo sa. Forse perché finisce la scuola, forse perché le giornate sono lunghe. Forse è il profumo di gelsomino. O forse perché ho l’impressione che le cose, in giugno, accadano, o possano accadere.
Sono arrivati in sequenza: un sei in matematica, e una promozione certa, nessuno smistamento di classe, una raccolta di racconti a cui tengo molto, e un’altra a cui sto lavorando con grande amore.
Poi mi viene in mente che in giugno, vent’anni fa esatti, mi sono pure fidanzata, e lo ricordo come uno dei momenti più belli della vita, quando pure ignoravo che cosa davvero avrebbe significato quella persona per me.
Così ho pensato: festeggiamo, scappiamo un giorno e mezzo, dimentichiamo per un giorno tutto il resto.
Certo. Ma perché farlo proprio su un pezzo di pietra di duemila anni a guardare Elena di Troia?
E perché no? E’ giugno. E poi io una bavetta all’aragosta così mica l’ho mai mangiata. Assassina. Si muoveva ancora.
Senza contare che è arrivato il caldo, finalmente. Mi scopro più tollerante e pacifica. Per esempio ieri mi sono sorbita quattro ore e mezza di un seminario sulla deontologia professionale. Quattro cfp. Che poi un giorno vorrei sapere il nome e il cognome di chi li ha inventati, i benedetti crediti formativi. Ma andiamo avanti. Ascolto anche con un certo interesse, almeno parto senza pregiudizi, anche se mi domando il motivo per cui, io, che sono architetto, debba seguire un seminario organizzato da avvocati, e avvilirmi con preoccupazioni varie su cause per negligenza da qui a trent’anni. Ma andiamo avanti.
Oggi, che è sempre giugno, accade che con una velocissima e impersonale mail mi avvertono che: ‘Spiacenti, i crediti non sono validi, non ha seguito il seminario in maniera corretta.’
Cioè? Scherzate? Sono stata anche attenta, interrogatemi, so tutto, non ho neppure dormito stanotte pensando a qualche leggerezza compiuta dieci anni fa che potrebbe costarmi, non dico la galera, ma multe sì, e salatissime, a quanto ho capito.
È così, come sempre, bisogna lottare anche per le cose che sono giuste di diritto. Raramente c’è qualcosa che fila liscio di suo. Bisogna alzare il telefono, mandare mail, chiedere di verificare, a volte anche pregare. E poi prendersi pure il rimprovero, Sì il rimbrotto della segreteria dell’ordine. A quarantacinque anni devo farmi sgridare, perché ho fatto 18 accessi.
‘Lei capirà, architetto, che è ingestibile.’
Poco importa se avevo problemi di connessione, se stavo seguendo i progressi di mio figlio nel corso di abilità sociali, se ero in macchina a prendere mia figlia al gym-camp, se recuperavo i miei genitori dal dentista per accompagnarli a casa, se con un orecchio ascoltavo le implicazioni penali della direzione lavori, e con l’altro ascoltavo mio padre parlare di barche a vela.
'Mi dispiace signorina, io, attualmente, quattro ore e mezza completamente libere per stare davanti a un computer di martedì pomeriggio, non le ho. Oppure le ho così, mente faccio altre cose non meno importanti. Se non le va bene, amen. Mi dispiace che abbia dovuto manualmente, ebbene sì, manualmente, conteggiare i minuti dei miei diciotto accessi, che sono 227, comunque le faccio notare che ha fatto una somma, un’operazione da terza elementare, e sono certa abbia pure usato la calcolatrice.’
Ecco cosa avrei voluto dire.
Però è giugno. Accadono cose. Perlopiù belle, bellissime.
-Ha ragione, mi scusi, non capiterà più.- Dico
Tanto mica lo sa che le ho mentito.

sabato 24 novembre 2018

LA FORTEZZA DELLA SOLITUDINE

-Ti puoi mettere le scarpe che andiamo a prendere Giulia?-
-Io non vengo, sto qui da solo-
-Non puoi stare qui da solo, non hai neanche cinque anni, mettiti le scarpe-
-Io voglio stare qui da solo, io sono la fortezza della solitudine-
Come gli vengano certe frasi devo ancora capirlo. Mi ammutolisce.

Lui è così, definirlo speciale non è abbastanza, stravagante? Forse, imprevedibile? Di certo. Ripercorro alcune scene banali ma non troppo:
Fila alla cassa del supermercato, quando gli lascio prendere un ovetto di cioccolata, che non mangerà, ma c’è un super pigiamino come sorpresa e non riesco a trattenerlo. Tanto che lo apre mentre riempio le borse. Salvo poi impiastricciarsi tutte le mani.
L’attimo dopo è una signora di una certa età che mi guarda sbigottita, perché le mani impiastricciate di cioccolata si stanno pulendo sul di dietro del suo cappotto, sfortunatamente beige. Io non so neppure cosa dire, mi scuso, mi riscuso, offro di occuparmi del lavaggio a secco. La signora se ne va scuotendo la testa.

Festa di compleanno di una compagna di classe, arriviamo sotto una piogerella fine, sotto l’ombrello che vuole tenere lui, quando arriviamo mi accorgo che le feste sono due, in stanze attigue, faccio fatica a orientarmi io, figuriamoci lui. Comunque individuo la nostra, conosco un paio di madri, conosco meglio i bambini, e mi siedo, non tranquilla, lo osservo, aspetto. Chiaramente elegge come festa quell’altra, forse ci sono più maschi, più palloncini, più monopattini da rubare. Infatti ne ruba uno, poi un altro. E io sto lì, in una stanza piena di sconosciuti, c’è  un vecchio compagno di liceo, che sembra riconoscermi, mi guarda interrogativo.
No, non sono invitata, ci siamo infiltrati. Scappiamo appena i proprietari legittimi dei monopattini strillano come disperati, e lui, per consolarsi si rifugia in uno sgabuzzino, e prende la borsa di una mamma e il di lei telefono.
-Mi accendi questo coso? -
-Ti dò il mio, però andiamo-
-Si andiamo, non mi piace questa festa, posso spegnere le candeline prima?
-No-

Siamo ai giardini, di solito non succede nulla di inquietante, tranne abbracciare qualche albero, comunque non disturbiamo nessuno. Di solito.
Ruba nuovamente un monopattino, ma ai giardini è lecito,  lo fanno un po’ tutti, chè se hai la bicicletta vuoi il monopattino, se hai una palla, vuoi la macchinina, e viceversa, insomma, situazioni comuni.
Con destrezza recupero il monopattino, lo rimetto dov’era prima, mi allontano quatta quatta.
-Sei la mamma di ieri? Quella della festa?
Beccata.
Niente è la mamma a cui abbiamo rubato il telefono, la mamma del bimbo alla cui festa ci siamo infilati meno di ventiquattrore prima.
Per fortuna sorride, ha un paio di figli, dice di capire, anche se non credo del tutto.

Noi siamo questi qui, lui è questo qui, che va a un’altra festa e in quattro secondi quattro, tempo di appoggiare la borsa e la giacca su una seggiola, e ha già smontato un castello di bicchieri rosa.
Ci riprende la nonna, rifaccio il castello, mi scuso, tanto so che non serve, altri quattro secondi e so che lo rismonterà.
Sono così stanca di chiedere scusa che mi allontano, intravedo una birra, la apro, la bevo. La nonna mi scruta, da lontano, lui per fortuna è scomparso sotto un trionfo di palline.

Domani avremmo un’altra festa, ha detto che non ci vuole andare, che sta bene a casa sua. Non dovrei, ma tiro un sospiro di sollievo.
-Giorgio sai che tra un po’ è Natale? Sai chi è Babbo Natale?
-No-
-E’ un signore vecchio e buono che vive al polo nord e che a natale porta tanti regali a tutti i bambini. Se gli scriviamo una letterina, puoi chiedere il regalo che ti piace. Che dici? La scriviamo la letterina?
-No-
-Perchè no?-
-Non li voglio i regali di Babbo Natale, che li porti agli altri bambini-

Ecco, appunto. Mio figlio: la fortezza della solitudine.

martedì 16 ottobre 2018

L'ILLUSIONE DI UNA MADRE

Che gli adolescenti siano tutti, più o meno, ruvidi e sfuggenti, credo sia un dato di fatto. È proprio una fase, non è necessariamente carattere o indole, è proprio un momento in cui se ti avvicini, semplicemente, pungono.
Io, che riccio lo sono quasi di professione, tento ogni tanto, con passo felpato, in timido silenzio, di avvicinarmi, di fare una carezza, a sorpresa, sui capelli, sul viso. Di più non azzardo.
Sarei ingiusta se non dicessi che lei ogni tanto mi abbraccia, ma senza grande trasporto, e perlopiù quando sono così stanca e nervosa che pungo pure io, come un adolescente.
Viene immensamente più facile coprire di baci e di carezze un piccolo ragazzino di quasi cinque anni, età in cui si lasciano stritolare, baciare, annusare, mordere.
Abbandonarsi alle smancerie con i bambini è semplice. Naturale. Non hanno alcuna resistenza, alcun filtro, ritrosia, timidezza.
Poi è un lunedì mattina, non sono neppure le sette, io dormo come al solito sul bordo del letto, in mezzo c’è il despota di cinque anni, e arriva lei.
-Cos’è successo?-
-Niente. Posso stare un po’ qui?-
-Certo.-
Ecco. È uno dei momenti in cui accostarsi, quando ha le difese abbassate e tentare, che so, un bacio sulla fronte.
Allungo una mano, supero il piccolo despota che si frappone sempre fra me e lei, ma ce la faccio, con il dorso della mano riesco ad accarezzare una guancia. La mia bambina. Lei fa una cosa che scrivo a costo di strappare dei cuori, ma prende la mia mano, se la infila tra la guancia e il cuscino, e la bacia.
Ci deve essere un disastro dietro l’angolo, un tre in matematica. Una sospensione. Insomma una catastrofe incombente.
-Tutto bene?- Chiedo ancora
-Sì. Solo che la mia camera è invasa da cimici, api e moscerini.
-Forse hai fatto un brutto sogno.-
-No, ho sentito le cimici volare.-
Questo scambio non basta a togliermi l’emozione. Dopo alcune ore se ci penso sono ancora commossa, e felice. Lo racconto a suo padre. Si commuove anche lui. La va a prendere a scuola.

Un pranzo tranquillo, allegro.
-Mamma, visto che hai un po’ di tempo, stampiamo le foto? Posso andare sul tuo computer che ne vorrei alcune di quando ero piccola, e anche qualcuna con te, papà e Giorgio.-
Deve avere bevuto qualcosa.
Comunque sì, accendi il computer che arrivo.

Qui di fianco ho un post it azzurro, perché alcune cose che voglio scrivere oramai le devo annotare, altrimenti le dimentico e poi volano via.
Siamo davanti al computer, lei apre una cartella del duemilaeotto, scorre le icone con la solita velocità che fatico a seguire.

-Guarda questa mamma. Qui ti volevo bene.-
Ride. voleva. Vabbè.
-Ti ringrazio. Pensavo mi volessi ancora bene. Stamattina mi hai dato pure un bacio sulla mano.
-Avevo freddo. E tu avevi la mano calda.
-Ah!.
-Eh come eri giovane qui. D’altronde era dieci anni fa.-
Ineluttabile.
-Oddio, ma come eri brutta qui. Ma che taglio avevi? Terribile.
-Anche qui ti volevo bene. Ma un po’ meno.-
Un po’ meno.
-Eccola là.  La balena spiaggiata.-

Fine della commozione struggente. Cinque battute per disintegrare l’illusione di una madre.


venerdì 27 luglio 2018

Loro due


La giovane bevitrice di caffè, e anche di birra, ho poi scoperto, è tornata.
Per vederla al tornello di uscita dell’aeroporto, abbiamo preso la macchina, fatto cinquecentododici chilometri tra andata e ritorno, naturalmente di notte, perché a noi, piace vincere facile.
Comunque eravamo lì, tutti e due, all’una, con l’espressione sconfitta di chi ha lavorato tutto il giorno, ha dormito poco e male, e ha patito il caldo afoso. Con lo sguardo diffidente di chi proprio non ha il coraggio, lì, agli arrivi Schengen di Malpensa, di parlare con altri genitori, mai visti, dell’esperienza unica dei propri figli.
Ci ha telefonato mentre aspettava il bagaglio, per assicurarsi che fossimo lì, non in ritardo come avevo prospettato.
Qualcuno ha lasciato la carta di identità sull’aereo, ti pareva, il gruppo è compatto, - bisogna aspettare- dice la signora Pasqua, coordinatrice, -in una mezz’oretta dovremmo farcela.-
-Mezz’ora?- guardo l’orologio, è l’una
-Vieni fuori, ringrazia tanto la signora Pasqua da parte mia, ma noi andiamo.
Così vengono fuori, lei e la sua amica, la intercetto per prima, le vado incontro, la abbraccio, sono così felice di vederla che vorrei tenerla stretta per un tempo interminabile, però mi stacco, perché voglio anche guardarla bene in viso, gli occhi, i riccioli sulle tempie, o forse è lei che si allontana, solito riccio respingente.
Si avvicina a suo padre, che la avvolge, conosco bene la potenza rassicurante di quell’abbraccio, e la guardo appoggiargli la fronte sul petto, la testa che scompare tra le sue braccia. Quando riemerge i suoi occhi sono lucidi di lacrime.
Che mia figlia abbia con suo padre un rapporto splendido mi rende felice, è ovvio. Che sia un po’ invidiosa della sintonia naturale, dell’alchimia, del loro sentirsi, o parlarsi con gli occhi, altrettanto.
Voglio dire, con tutto quello che ho fatto io nella vita per lei, o anche solo con lei.
Con tutto il tempo, le parole, l'amore, e poi di nuovo il tempo, le parole, o il silenzio, per ascoltare.
Eppure lei si commuove a rivedere lui. non me.
È meraviglioso-direte- lo è, in effetti, per la ragazza che è oggi e per la donna che sarà domani. Una fortuna. Un dono. Un’armatura.
E io sono gelosa.
Questi i miei pensieri, mentre camminiamo nei corridoi dell’aeroporto, loro due avanti di qualche passo, io dietro, curva di stanchezza, gli occhi al pavimento.
-Ma è lui?-
-Lui chi?-
-Lì, sulla panchina, guarda, sì è proprio lui, che faccio? Gli dico qualcosa?-
-Ma sei matta? È l’una e un quarto!-
-E allora? Dite che è una brutta figura?-
-Mamma per favore, andiamo.-
-E se ci fosse Fedez su quella panchina? Non ci andresti di corsa?-
-Ma ti sembra Fedez quello lì?-
-No. In effetti.-
Desisto, è tardi, mi stringo nelle spalle e li seguo mesta. Solo ogni tanto, giro la testa.
Loro si guardano, scuotono la testa. Si parlano con gli occhi,  credo dicano:
-Abbi pazienza è fatta così.-
-Però è simpatica.-
Torna la voce:
-Papà ma chi era quello?-
-Lo psichiatra, quello che piace alla mamma, quello che parla di famiglia, quello della trasmissione su Rai tre.
-Recalcati. Si chiama Recalcati!- urlo da dietro
-Chi?
-E me lo paragoni a Fedez?

#she'sback#padriefiglie#recalcati

C’e Una ragazza


-Ho preparato la bustina con i medicinali: moment, oki, cerotti, salviette disinfettanti e tachipirine, Mi raccomando, non darli a nessuno, è una regola. Mi ascolti? Giuli mi ascolti?
-Eh?
-I medicinali, Giuli, i medicinali! La tachipirina 500…-
-Se ne prendi due… diventan mille….
C’è una ragazza, assomiglia a mia figlia, che disintegra un momento di agitazione pre partenza cantando Calcutta.
-Hai preso gli asciugamani? Le mutande? Il libro da leggere? Un quaderno, che so? Prendere due appunti?
-Gli asciugamani? Ops.
-Scusa cosa hai fatto tutt’oggi?
-Sono andata a fare le ultime spese: il mascara, le salviette struccanti, più comode dell’acqua micellare, shampoo e balsamo.
C’è quest’altra ragazza, anche lei simile a mia figlia.
Comunque è partita. Ha chiuso una valigia le cui cerniere salteranno sicuramente durante il volo, controllato documenti, soldi, beni di prima necessità come carichino del telefono e presa inglese, separato liquidi oltre cento cc, e se ne è andata nel mezzo della notte, con i capelli ruffi e gli occhi assonnati.
Di nascosto ho preso il suo beauty e ho infilato un dentifricio, i benedetti medicinali da banco, un tronchesino per le unghie, un phon.
-Mamma hai messo tu il phon in valigia?-
-Sì-
-Vabbè. Puoi controllare se ho preso tutto?-
Poi ci siamo acquattate sul divano, a guadare Tutto può succedere, e niente, Marco sta per tradire Cristina, ma solo perchè è un momento difficile, non la vuole veramente tradire, ha solo bisogno di un po’ di evasione.
-Certo che è proprio un infame!- dice senza pietà
-Ma non ha fatto niente di male, non l’ha neanche baciata!
-Sì però ha detto una balla, è un infame. Punto.
Mi fa paura questa rigidità, ma ha quattordici anni, ci può stare, e poi è tardi per intavolare una discussione su tolleranza, comprensione, condivisione. Lascio stare. Cambio canale.
-Mi mancherai- le dico
-Anche tu- mi abbraccia.
Chissà. Magari è pure vero.
-Scusa ma stai guardando gli incidenti aerei? Cioè devo prendere un aereo tra sei ore!
-Hai ragione, scusa.
-Come sono andata oggi in inglese?
-Neanche male. Ti manca giusto la versione di ‘praticamente’ in inglese, però puoi usare : actually, by the way, anche gli inglesi usano gli intercalari, cosa credi?
-Vabbè, provo a dormire. Ma ti svegli alle due e mezza per salutarmi?
-Certo.
Mi sono alzata, alle due e mezza, l’ho abbracciata sulla porta, e per fortuna lo stordimento notturno ha evitato scene di emotività complessa e struggente.
Ora è là, non mi ha ancora mandato una foto, non ha postato nulla, nessuna storia, nessuna diretta. Oppure sono io che non sono becco mai il momento giusto.
Telefona e racconta poco e nulla: il college che assomiglia a una prigione, come se mai l’avesse vista, una prigione.  La cena servita alle diciassette pomeridiane, una pazzia, ha commentato.  Molti italiani, poi russi, e spagnoli.
Ah, non ci sono grucce,  pochissima carta igienica, e nessuna traccia di tenda doccia.
-Ma perché? Avete il bagno in comune?
Non ha risposto, ha cambiato discorso, qualcuno, un italiano, ha portato la macchietta del caffè, la vecchia intramontabile moka.
-Ma da quando bevi il caffè?
-Da stamattina.
C’è una ragazza, a millesettecento chilometri da me, si chiama Giulia, assomiglia a mia figlia, ha i suoi stessi capelli lunghi e biondi, e ha cominciato a bere caffè.

giovedì 24 maggio 2018

LESSICO FAMILIARE

La mia carriera in fatto di incidenti stradali non è un granché, ma merita comunque una riflessione, almeno oggi, dopo che ho firmato il terzo cid della mia vita.
UNO.
Regolarmente parcheggiata in via Bellacosta, apro delicatamente la portiera per scendere. Giulia è dietro, ha cinque anni, ed è legata nel seggiolino. Mi chiama:
‘Mamma voglio scendere anch’io. Slegami la cintura.’
Il tempo di girarmi a sganciare il pulsante, la portiera che si richiude, uno, due, tre BOOM! La portiera non c’è più, sradicata dal resto del telaio, tranne per un piccolo pezzo di cerniera.
Dalla macchina che si è fermata, più avanti,  scende un anziano. Gli sanguina una mano, mi chiede: ‘Tutto bene?’
‘Insomma.’
Giulia nel frattempo è scesa, non si è fatta nulla, solo un po’ di paura.
Il vecchietto è dispiaciuto, scuote la testa, dice: ‘Mi scusi, sto tutto a destra per evitare quelli che escono dai passi carrai. Deve essere il mio giorno sfortunato, anche l’altr’anno, stesso giorno, ho centrato un furgone di rumeni. Proprio il mio giorno sfortunato.’

DUE.
Ho fatto una semplicissima retromarcia in via Castiglione. Sempre con Giulia, sei o sette anni. Maledetto angolo cieco. Comunque sento un botto, forte, guardo dietro e non c’è nessuno. Tremo. Dio mio, penso, ho preso un bambino.
Scendo, non è un bambino, grazie al cielo, però è una signora, di una certa età, è vigile e cosciente. Mi avvicino subito:
‘Signora, signora?  Mi scusi, non l’ho vista, come sta? Mi scusi, aspetti che la aiuto.’
E’ sdraiata a terra, sembra molto dolorante,  vedo che fa fatica a parlare, indica la gamba: ‘Il piede- dice- Il piedeeeeee!
Niente,  il piede è rimasto sotto la ruota.
Oh Gesù. Risalgo in macchina, rimetto in moto, ingrano la prima. Giulia è sempre nel seggiolino. Impietrita.
Libero il piede della signora. Scendo. Intanto almeno venti passanti sono intorno a noi e mi guardano come fossi un’assassina. Tipo il film di Benigni. ‘Assassino… Assassino….’
La signora non vuole andare in ospedale, vuole andare a casa, vuole chiamare suo figlio. Le dò il mio numero di telefono, lei mi dà il suo. Me ne vado sentendomi un po’ meno di un'assassina, ma comunque male. La sera la chiamo. Così il giorno dopo. E quello dopo ancora. Non ha mai, mai risposto.

TRE.
Sono solo una passeggera di dieci anni. E’ mio padre alla guida, sulla strada per il Corno alle Scale. Ancora oggi credo che la mia reticenza a sciare sia dovuta a quell’incidente.
Intanto ha una catena sola. L’altra presumo l’abbia persa. Ha nevicato pesantemente, la strada è tutta bianca. Noi andiamo lo stesso, con una catena sola. Quando diventa chiaro che non riusciamo a proseguire lui dice: ‘Torniamo indietro, andiamo a comprare le catene.’
Magari.
Al terzo tornante in discesa, la macchina non risponde. Mio padre scuote la testa: ‘Ho fatto una cazzata, stringiti a me.’ Io eseguo, chiudo gli occhi mentre la macchina vola, o scivola, comunque finisce su un albero, ruotata sul fianco, dalla sua parte.
Ti sei fatta male? No. Bene, neanch’io. Scendi -dice-
Certo, come no! Aspetta che mi arrampico. Arriva qualcuno, mi aiuta.

Non ricordo di avere detto nulla, ricordo un carro attrezzi che tira su la macchina, il parabrezza disintegrato. E mio padre che dice: ‘Bene adesso andiamo a sciare. Ma mi raccomando, non dirlo alla mamma.’

QUATTRO. Torniamo ad oggi. Anche qui, una manovra stupida. Esco da un parcheggio che già non era stata una grande idea, in curva, davanti alle strisce pedonali. Comunque non la vedo arrivare, lei avanza piuttosto veloce e mi viene addosso. Si accartoccia la fiancata, la sua. Io non sono né soccmel Schumacher, né un esperto di codice della strada. Quindi alzo un po’ la voce, perché, tutto sommato, è lei che è venuta addosso a me.
‘Aspetta che chiamo il mio fidanzato.’-dice
Sono stanca e bellicosa.
‘Va bene-dico- aspettiamo il tuo fidanzato.’ E già un po’ mi incavolo con queste donne che hanno sempre bisogno di un uomo per risolvere un problema o per firmare un cid.
Appena arriva gliene dico quattro. Penso.
Macchè. Arriva un Genny Savastano di Vibo Valentia. Con i tatuaggi e gli orecchini. Magari è un pezzo di pane, però nel dubbio…
‘Hai torto marcio’ sentenzia
‘In effetti’ dico. Se mi chiede direttamente un assegno, quasi quasi glielo firmo…
Così rientro in macchina, e mi deprimo. E ripenso al viaggio di ritorno fatto con mio padre dal Corno alle Scale. Lui vestito da sci con la tanto di maschera. Io dietro, sdraiata sotto dei panni. In autostrada così. Senza parabrezza, mentre nevica. Senza neanche il conforto della mia mamma.
Lessico familiare. Domani chiamo Recalcati. O il telefono azzurro. O l’assicurazione. Che è meglio.

SCENA MUTA



Filosofia è la materia che ho portato come prima all’orale di maturità, Henri Bergson era la domanda a piacere che avevo preparato, perché avevano garantito di farla a tutti, così, per sciogliere la tensione. Bene.
Raffaele Ghidini fece l’orale prima di me e l’ultima domanda che dell’esaminatore fu su Henri Bergson. Fine della domanda a piacere. La mia tensione, quindi, l’unica, a essere alle stelle.
Il programma era lungo eterno, io credevo di avere più tempo e misi la croce sopra alcuni capitoli: L’io-non io di Fichte, Ludwig Feuerbach, e la critica della ragion pratica di Kant.
Uno due tre, le prime domande del mio orale di maturità, nella mia materia. Scena muta. Quattro. Non male.
Sono passati quasi trent’anni, ma lo sguardo della mia professoressa di filosofia lo ricordo ancora, il modo in cui arricciò le labbra e scosse la testa. Io abbassai le palpebre qualche secondo, per sentirmi, da sola,  un piccolo verme inutile.

Diventi adulta, impari tante cose, ti impegni, lavori, magari scrivi, e sogni. Che cosa? Quello che sognano tutti gli scrittori: di pubblicare un libro, un racconto, di vederlo andare in giro, di sapere che qualcuno lo ha letto, lo ha capito.
Il piccolo verme inutile dorme da tempo, non disturba. Solo ogni tanto si affaccia timido, mi ricorda che è sempre lì, in agguato, pronto a saltare fuori alla prima soddisfazione.
Eccolo qui, torna fuori alla libreria Ambasciatori, luogo dove ho assistito a presentazioni, cercato libri, idee, ascoltato scrittori, quelli bravi, raccontare di romanzi, quelli belli, fantasticando, un giorno, di essere là, dall’altra parte.
Oggi è così, merito di un ragazzo con tante idee, di un gruppo solido  e stimolante, di un’editrice coraggiosa e di una raccolta di racconti. Nostra. Piccolo sogno che si avvera.

Ma il piccolo vermetto è lì, di fianco a me, e chissà come, mentre un giornalista mi allunga il microfono, si insinua tra le mie corde vocali e dice: No, grazie. No grazie. Grazie, no. Neanche fosse Cyrano de Bergerac.
Non sono certa, ma credo di avere abbassato gli occhi come allora, davanti alla commissione di maturità. Di sicuro ho la lingua fuori, stretta tra le labbra, me lo dice, dopo, la foto che mi invia un’amica dal pubblico.
I casi sono due: o scrivo un libro all’altezza di Elena Ferrante, e scompaio mentre il mio fulminante successo viaggia per il mondo tradotto in trentasei lingue, o comincio a lavorare seriamente sulla mimica facciale e sull’elaborazione di semplici frasi dal senso compiuto, nel fortuito caso mi ricapitasse di essere davanti a un pubblico.
Intanto, magari, cercherò di terminare il romanzo, che sarebbe già un successo. Ma prima devo distruggere il piccolo verme malvagio, che sta lì, in agguato, pronto a boicottarmi. E mi sussurra piano, di notte, che non ce la farò. Fa sembrare semplice mollare tutto.
Niente. Devo proprio disintegrarlo.
Ah, dimenticavo: il ragazzo dalle mille idee si chiama Simone, l’editrice coraggiosa si chiama Katia, e il libro si chiama Misteri e manicaretti con Pellegrino Artusi, Edizioni del Loggione.

MOTORINI


-Voglio il motorino!-
-Capisco. Ti sei divertita?-
-E’ stupendo mamma.-
Passo indietro. La scuola si fa carico dell’educazione stradale dei nostri figli, fantastico. Alle elementari li portavano ai giardini, gli insegnavano ad attraversare la strada, a guardare con attenzione il semaforo, l’omino che lampeggia, l’arancione, le strisce pedonali. Poi è arrivato il turno della bicicletta, sempre ai giardini, i birilli per terra, il caschetto con cui si passavano i pidocchi, le buone regole della circolazione, tipo le mani sul manubrio.
Secondo me poteva bastare.
Invece no, la scuola si è modernizzata, è al passo coi tempi, i professori mandano i compiti via WhatsApp, per falsificare una giustificazione bisogna essere un hacker, tra un po’ il colloquio con i docenti si farà in facetime.
Perché stupirsi?
-Mercoledì c’è la prova in motorino-
-Ah si? E in cosa consiste?-
-Boh, un test in aula, ci spiegano alcune cose, poi ci fanno provare a guidare-
-Bello- aggiungo perplessa, ma in fondo la invidio.
Il messaggio ‘voglio il motorino’ è delle  9 59, poi alle 10 28 ‘sono caduta’ con faccina che ride. Cosa ci sarà poi da ridere non so.
-Ti sei fatta male? Chiedo
-No, no- Altra faccina che ride.
Ma che bisogno c’era, dico io, di questa simpatica gitarella in motorino? Non bastava, un giorno sì e uno no, l’elenco tutti quelli che hanno preso la patente, di quelli che hanno ereditato il motorino dal fratello, di quei genitori fantastici e meravigliosi che hanno promesso che forse, per la promozione…

-Dai, raccontami, sono curiosa.-
-Allora prima abbiamo fatto un po’ di teoria, poi abbiamo fatto delle prove al simulatore-
-Al simulatore?-
-Sì, tipo un manubrio collegato a un monitor che simula la strada, il traffico, etc, solo che sbucano pedoni all’improvviso, incredibile!-
-Beh può capitare in effetti.-
-Ah io ne ho investiti tre o quattro!-
-Davvero? Che simpatica.-
-Mamma ma è un simulatore, e pi non hai la visione laterale e neppure gli specchietti-
-Beh gli specchietti con i pedoni non è che aiutino un granché-
-E poi un camion ha frenato di colpo e ci sono finita dentro, pensa tu.
-Scusa e la prova pratica?-
-Niente, ho accelerato in curva, ho preso tutti i birilli e sono caduta-
-Ti sei fatta male?-
-No, niente, solo un graffio-

Bilancio della lezione di educazione stradale a bordo delle due ruote: quattro pedoni investiti, sei incidenti con altri mezzi, di cui due potenzialmente mortali, circa dieci incidenti da sola (non ricorda) nessuno mortale,  una sola scivolata reale con piccola escoriazione su interno caviglia.

-Credo che andrai in autobus ancora per un po’!-
………….
-Mamma? Mamma?-
-Cosa c’è?-
-Niente, sono dovuta scendere dall’autobus perché c’è stata una rissa-
-Una rissa?-
-Sì, un tizio ha tirato un pugno contro il vetro del conducente che si è frantumato.-
-e adesso?-
-Aspetto un altro autobus, certo, se avessi il motorino…




venerdì 8 dicembre 2017

COME VORREI


Come vorrei avere quattordici anni, un’ora buca e un appuntamento al bar Venezia con le amiche.
Come vorrei, anche un giorno soltanto, prendere l’autobus, gli auricolari con l’ultima canzone di Coetz, scendere qualche fermata prima, bere un cappuccino, poi entrare a scuola, prima la gradinata, poi il corridoio, entrare nella mia aula e sedermi in fondo.
Nascondere il telefono sotto il banco, acceso e silenzioso.
Come vorrei invitare due amiche a casa il martedì pomeriggio, fare con loro un lavoro di arte, un po’ di merenda, e poi buttarci sul letto a chiacchierare.
Come vorrei dare una festa sabato sera. Io e la mia migliore amica, una piccola sala, un deejay, una trentina di amici, forse qualcuno in più, mia mamma al bar di fronte a buttare un occhio. Qualcuno arriva con i tacchi, ignorando come  ci si cammini, e quanto male possano fare, qualcuno più furbo, nello zaino ha messo ha un paio di all-star che non si sa mai.
Come vorrei andare a letto felice verso l’una, e dormire di un sonno così profondo da non sentire il furgone dell’Hera che passa alle sei di mattina, svegliarmi verso le undici e mettere orgogliosa la maglietta di Stranger things, provare tutti i miei nuovi trucchi, pranzare con i miei genitori e correre alla partita.
Come vorrei avere una versione di latino domani, o una verifica di geo-storia, anche un esercizio sugli insiemi mi piacerebbe.
Come vorrei essere una ragazzina e non avere freddo mai, magari solo un po’ allo stadio il 3 dicembre. Come vorrei non mettere la canottiera, non avere mal di schiena, e non vedere nello specchio il pallore della stanchezza.
Come vorrei tornare nel vicolo Broglio di trent’anni fa, con la minigonna di jeans, le toppe di naj-oleari, le calze col pizzo e i camperos, entrare timida timida all’Art, e ballare.
Ma basterebbe anche essere su una vespa cinquanta special, truccata con un motore settantacinque, caricata, senza casco perché ancora non è obbligatorio, su per via di Casaglia, magari una sera di giugno, la scuola appena finita, in direzione Fri-go.
Come vorrei.
Ma è una malinconia che dura solo il tempo di questa giornata, perché compio quarantaquattro anni, e avrei anche fatto finta di niente, me ne stavo zitta zitta, neanche una candelina, ma non è possibile in questo mondo social. Un algoritmo bizzarro di FB mi invia una notifica, per ricordarmi, a me, proprio a me, che oggi è il mio compleanno. Così, nel caso me lo fossi dimenticato. Che devo fare? Andare sul mio diario e scrivermi un messaggio di auguri? Va bene, Auguri. scrivo un post. Amen

NO,NIENTE


Comunque ventura si deve dimettere-
-Beh anche Tavecchio…-
-Poi non ha convocato Verdi, uno scandalo-
-E non hanno neanche avuto il coraggio di presentarsi alle telecamere, vigliacchi-
-E Darmian? Lo ha fatto giocare da ala invece che a centrocampo, proprio un incompetente-
Io mia figlia la amo così tanto che mi tocca parlarci anche di calcio, di modulo, schema tattico, 4-4-3 , 4-3-2-1, più altre cose che francamente non capisco, ma si sa, quando perde l’Italia siamo tutti un po’ allenatori. 
Ora che è più grande, più impegnata, mi accorgo che mi manca. Anche dieci minuti in macchina, io e lei, hanno il gusto dell’intimità. 
E’ poco, lo so anch’io, mi devo inventare qualcosa.
La vado a prendere alle quattro e mezza, le faccio fretta come al solito, gli zainetti sono già pronti. Guanti, torcia elettrica, bandana, berretto. 
-Quanto dura?-chiede
-Un’ora e mezza, più o meno-
-Ah, quindi arriviamo a casa alle otto- 
-Magari un po’ prima, perche?-
-No niente-
No, niente: è la sua risposta preferita. La usa come intercalare.
-Non ho sentito, puoi ripetere?- No niente
-C’è qualcosa che non va?- No niente
-A che ora torni?- No niente - A che ora torni, ho chiesto? - Ah, alle sette, scusa.
Il No niente di oggi vuol dire che domani ha una verifica di scienze, che deve ancora ripassare, dopo qualche esercizio di grammatica e prima di X-Factor.
-Se vuoi vado da sola-
-No, ripasso dopo. Le calosce le hai trovate?-
-Sì, le ha comprate la nonna, sono in macchina-
Calosce nere, normalissime, assomigliano a quegli stivali in gomma che vanno pure di moda, non capisco perché le guardi con quell’aria disgustata.
-Ma dobbiamo anche camminare per strada?-
-Non lo so. Cosa c’è? hai paura di incontrare qualcuno?-
In effetti forse ha ragione, calosce nere, caschetto giallo, torcia, la mamma di fianco, una manciata di persone uguali a noi, tra ragazzini, signore attempate, qualche padre, qualche figlio, la guida davanti a tutti con il casco e il microfono ad archetto.
Sembriamo i giapponesi in gita. 
Invece siamo un gruppetto di bolognesi in visita ai sotterranei della città, si parte da via Marconi, sotto via Riva Reno, piazzetta della Pioggia, poi via Falegnami, via Augusto Righi, tutto sotto terra, dove scorrono i canali, tranne oggi perché ci sono i lavori di manutenzione.
Tutto molto bello, non fosse per i quaranta minuti di lezione sull’ingegneria idraulica, la grande turbina, la vasca di sfioro, il generatore di emergenza, il fenomeno della cavitazione, e lei che mi guarda, in una mano la torcia, nell’altra il casco, e due occhi sconsolati che mi dicono: cosa ci facciamo qui? 
La incenerisco con lo sguardo, ma in cuor mio spero anche io che questa lezione finisca tra un minuto, o mi odierà per sempre.
Poi la guida richiama la nostra attenzione:
-Mi raccomando-dice- il salto tra il Cavaticcio alto e quello basso è di quattordici metri, e c’è un affaccio senza parapetto, quindi non avvicinatevi-
Ecco, pure pericolosa sta stupida gitarella. 
-Mamma, ma se inciampo e casco giù?-
-Tranquilla, mi butto dietro di te-
-E Giorgio? Vabbè, cerchiamo di stare attente. 
In realtà ci divertiamo, in questi tunnel bui, illuminati dalle nostre torce, camminando a testa bassa per non sbattere la testa, a fotografare i gamberi di fiume intrappolati nelle pozze. Guardiamo la strada dal di sotto, dalle griglie su cui saremo passate centinaia di volte in macchina. 
Per una volta siamo dentro il canale che abbiamo visto dalla benedetta finestra di via Piella, dove ho scoperto che un tempo lavavano le vacche prima di venderle in piazzola, incuranti che pochi metri più in là, lavassero anche i morti. 
Quest’ultimo pezzo, per fortuna salva tutta la giornata, usciamo da un cancello e finalmente siamo di nuovo all’aperto. 
Possiamo toglierci il casco, le calosce infangate, e quasi corriamo al parcheggio dove abbiamo lasciato la macchina. Non lo ammetterà mai, ma si è divertita.
Purtroppo la quotidianità è quel che è, siamo sempre in macchina, un giorno di pioggia incessante. 
-Perchè quella faccia?-
-No niente-
-Dai, cosa è successo?-
-Niente, ti ricordi la verifica di scienze? Avrei preso cinque
-Ah, mi spiace, recupererai…colpa mia, sei arrabbiata? Ohi sei arrabbiata? 
-No, niente.